
Mio padre mi diceva: “O fai il dentista o finirai sotto un ponte a fare il barbone.”
Mi faceva paura la mancanza di altre alternative e non è stato facile decidere per il ponte. Forse mi ha convinto il ricordo di una vacanza da ragazzo, le notti passate a dormire sulla spiaggia, la leggerezza del non possedere.
Poi la vita ha spianato altre strade, ed oggi non sono dentista e non sono più barbone. Non credete mai a chi non vi da alternative.
Ma se torno ai miei diciassette anni mi sorprendo del coraggio o dell’incoscienza che la gioventù ti regala.
Dormivo sui treni, sui tram, a volta forzavo la portiera di un auto e mi infilavo a dormire nei sedili posteriori, se non pioveva e c’era caldo dormivo nei giardini di Corso Italia sotto una palma.
Sono stato il barbone più borghese di Genova.
E non c’era paura se non quella di tornare a casa.
La cattiveria non aveva ancora una spiegazione e nemmeno la spietata logica del profitto, le partite a pallone le vincevano i migliori, le partite a carte le vincevano i più fortunati, i più belli avevano le ragazze migliori, i più coraggiosi erano i capibranco, i più studiosi avevano i voti più’ alti.
Non conoscevo ancora la parola “paraculati” e non esistevano i “senza scrupoli”, c’era un perché accettabile di fronte ad ogni risultato, c’era il gusto di seguire i migliori per impararne la tecnica e comprenderne la forza.
Poi tutto cambia, da un giorno all’altro, dal telegiornale del mattino a quello della sera, quando improvvisamente la continua visione d’ingiustizie ti porta a capire che l’ingiustizia esiste, regna ed uccide.
Non è un dolore personale, non è una cosa privata, non riguardava me o i miei amici, riguarda il mondo.
Era quello il terreno su cui camminavo.
No, non è tutto perduto, ma è necessario armarsi, vestirsi d’acciaio, essere pronti alla battaglia, conoscere le tattiche del nemico, è così, non ci avremmo mai pensato, ma esiste un nemico anche se non si è mai dichiarata una guerra.
Oggi, guidando, ascoltando una musica che annienta i rumori, mi sembra di essere immerso in un acquario, vedo la gente camminare come al rallentatore, ne intuisco i pensieri e mi stupisco che ci sia spazio abbastanza per contenere tutte le idee, i sogni, le attese, le speranze, i dolori, le delusioni ed i progetti.
C’è un vecchio che zoppica, ha la faccia triste ed un sacchetto della spesa nella mano sinistra, attraversa la strada alzando la mano destra per fermare le macchine. Non è sulle strisce, ma che importa, alza la mano e gli automobilisti frenano, l’importante è arrivare dall’altra parte della strada e lui arriva.
Perché sopportare ancora fatiche, compromessi, code alla posta, perché ancora mangiare, bere, dormire, rialzarsi e ritornare a dormire.
Perché si è così attaccati alla vita quando la vita sembra un interminabile titolo di coda.
La risposta è un mistero, la tenerezza è una realtà travolgente, è che l’uomo ha il coraggio di sopravvivere ma non il coraggio di morire. La mia macchina è un acquario in un acquario, ed io sono un pesce che guarda altri pesci, alzo gli occhi al cielo e vedo la mano di dio che getta due scaglie di cibo, ma oggi non ho fame e non gli darò la soddisfazione di osservarmi mentre divoro la sua elemosina.
Si fotta.
Guido Prussia — presso Hobson Beach, Ventura.
Fonte: https://guidoprussia.com/2016/12/03/mio-padre-mi-diceva/
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