Qualche giorno fa il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi ha affermato che «sui contratti il capitolo è chiuso». Secondo lui i salari sono aumentati troppo “erodendo i profitti” e “scoraggiando gli investimenti”. Parola di Confindustria.
di Carmine Tomeo
Per sua stessa ammissione, Squinzi s’è stufato, ha messo il pallone sotto il braccio e se n’è andato. S’è stufato, perché – dice Squinzi – Confindustria non vuole affatto né riduzioni dei salari, né moratorie sui contratti, ma che «gli aggiustamenti del salario vanno legati ai risultati aziendali», ché mica «si può distribuire ricchezza se prima non viene creata».
Squinzi arriva a questa soluzione subito dopo la pubblicazione della nota periodica del Centro Studi di Confindustria, che nella sua analisi dello scorso 3 ottobre sostiene che «Negli ultimi tre anni le retribuzioni reali sono cresciute del 4,6% nel manifatturiero». E così, ad oggi «La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici, mentre la redditività delle imprese è ai minimi, con un impatto negativo sulla dinamica degli investimenti e sulla crescita, anche futura».
Cari lavoratori, avete capito
qual è il problema in Italia?
È che guadagnate troppo!.. E quando voi, cari lavoratori, guadagnate troppo, siete causa di «una forte erosione dei margini di profitto» e questa situazione «scoraggia gli investimenti, il cui minor livello indebolisce la crescita, anche futura». Parola (nel virgolettato) dei padroni.
È in questo quadro che entra in scena il governo Renzi con la sua proposta di salario minimo che, come abbiamo già fatto notare su questo giornale, non farà che abbassare i salari per andare incontro alle richieste padronali.
Ora, i nodi, su questa questione, sono due: uno di natura più politica; l’altro più economica. Ma quei due nodi si tengono insieme. Il primo riguarda il ruolo del sindacato ed il tentativo di Renzi di soffocare i corpi intermedi, nella loro funzione di autorganizzazione autonoma dei lavoratori. I sindacati, nell’idea che sembra essere nei piani di Renzi, dovrebbero quindi svolgere un ruolo di cogestori delle misure di riduzione di salari e diritti dei lavoratori. Su questo punto, non troverà troppe difficoltà con Cisl e Uil, da molto tempo ridotte a fare da organi di informazione padronale nei luoghi di lavoro.
In Cgil, invece, ci sono ancora elementi di resistenza a questa situazione, pur non schiodandosi, questa organizzazione sindacale a guida Camusso, da un ruolo concertativo che non ha più ragione d’essere, vista la consapevolezza dei padroni della loro forza.
L’altro punto è più prettamente economico. Quello che afferma Confindustria sembra l’interpretazione su basi concrete dell’analisi marxiana. Dicono, facendo una sintesi brutale, gli industriali: «I lavoratori in Italia guadagnano troppi soldi!».
A questa affermazione si potrebbe rispondere, giustamente indignati, che la retribuzione media di un lavoratore italiano è ben lontana dall’essere ai primi posti in Europa (nono posto, molto dietro di quella di Germania e Francia); che in Italia un dirigente guadagna quattro volte di più di un operaio e che un amministratore delegato ha una retribuzione di 11 volte superiore di un lavoratore con bassa qualifica. E si potrebbe continuare facendo notare che la quota di ricchezza prodotta andata ai salari è in calo dagli anni ’70 del secolo scorso e che gli indici di disuguaglianza sono impietosi nel descrivere una disparità sociale crescente.
Potremmo continuare, ma ai padroni non interessa affatto. A loro interessa che il salario, inteso come salario per la classe dei lavoratori, non vada oltre il valore, storicamente determinato, dei mezzi per la sua sussistenza. Che un lavoratore e la sua famiglia con quello stipendio non riescano a campare, poco importa al padronato. Il salario minimo «come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli operai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo», spiega Marx nel suo “Lavoro salariato e capitale”.
Quello che affermano gli industriali, in maniera nemmeno troppo velata, è che per l’accumulazione del capitale c’è bisogno della riduzione dei salari; che affinché possano aumentare i loro profitti, devono ridursi i salari dei lavoratori. È una sintesi impeccabile dell’irriducibile antagonismo tra capitale e lavoro.
Il salario minimo adombrato da Renzi va esattamente in quella direzione e si muove nel quadro della lotta di classe, che i padroni stanno conducendo. Dovremmo quindi cominciare anche noi a ragionare di uscire dalla crisi su basi antagoniste, muovendoci nella lotta con un progetto politico autonomo e di unità di classe, piuttosto che di unità di ceto politico che in questi anni non ha avuto altro effetto che disperdere un patrimonio intellettuale e militante.
tratto da: HTTP://LACITTAFUTURA.IT/
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