Ricordatevi del bar dove avete fatto colazione questa
mattina, tenete bene a mente il benzinaio dove vi siete fermati prima di
partire per il weekend. Perché
la prossima volta che ci passerete davanti, chissà, al loro posto troverete una
saracinesca abbassata.
Chiusi per ferie? Macché, chiusi per crisi, tasse e pure
per colpa di una app . Ecco la sorte che tocca a quattro negozi all’ora, 90 al
giorno, 2.700 al mese. Solo da gennaio ad aprile, secondo i dati di Confesercenti,
sono sparite 10.654 attività. Un virus che colpisce a ogni latitudine, al nord
e al centro (più di seimila) come al sud e nelle isole (le restanti 4.600).
Magazzini sbarrati, locali lasciati sfitti, annunci di «cedesi attività»
ignorati da mesi.
Con un’emorragia di posti di lavoro che non accenna a
fermarsi, anzi, visto che già alla fine dello scorso anno il saldo tra nuove
imprese e quelle «cessate» era stato pesantemente negativo: quasi 25mila in
meno.
Cento
vetrine che chiudono, addirittura una su due entro tre anni dal brindisi
d’inaugurazione. Purtroppo non è fiction, ma la realtà per una larga fetta di
Paese che non vede la luce della ripresa perché è ancora intrappolata nel
tunnel dei conti che non tornano. E alla fine si è costretti a gettare la spugna.
Non è questione di gufi.
Basta chiederlo, per esempio, ai 2.653 tra uomini e
donne che portavano avanti un negozio di abbigliamento o di calzature.
In
comune hanno l’epilogo della loro storia imprenditoriale: nei primi quattro
mesi del 2015 hanno detto addio al business. Sono evaporate persino le bolle
dei compro oro (-13mila aziende in tre anni) e delle sigarette elettroniche (da
tremila a poco più di mille in un biennio). Così come hanno abbassato
definitivamente la clèr , come dicono a Milano – 402 macellerie, 236 botteghe
di ortofrutta, 340 negozi di articoli da regalo e per fumatori, 284 edicole e
giornalai; insomma, i nodi di quella rete di prossimità che tiene insieme
interi quartieri.
Il primo danno collaterale i cittadini lo pagano in termini
di (in)sicurezza, perché meno negozi aperti significa più insegne spente e
marciapiedi deserti, a rischio degrado e preda della criminalità. Non se la
passano affatto bene bar, ristoranti e pizzerie. La Federazione italiana dei
pubblici esercizi (Fipe) ne ha contati diecimila in meno in un anno, con 8
miliardi di euro di mancata crescita dal 2011 a oggi. Qui il turnover è
particolarmente accelerato, c’è un alto tasso di improvvisazione: in molti
aprono un locale, magari dopo aver perso il precedente lavoro, ma spesso senza
successo. Per gli immigrati, con aspettative di guadagno più basse, il settore
è diventato particolarmente appetibile. E così proliferano sushi restaurant,
kebab take away, alimentari etnici. Gli imprenditori italiani invece ci provano
con gelaterie artigianali e botteghe di prodotti bio, tra le poche che vantano
trend positivi.
Per tutti, però, l’orizzonte di sopravvivenza non supera i 5
anni.
Perché si
chiude? Colpa della crisi economica, certo, che ha stravolto le abitudini delle
famiglie.
La spesa per consumi, certifica ancora Confesercenti, lo scorso anno
è rimasta pressoché stabile dopo aver perso 60 miliardi di euro nei due anni
precedenti. Spinge a mollare tutto la zavorra di burocrazia e tasse, ormai
insostenibile se la pressione fiscale è oltre il 50%, per non parlare dei
rincari Imu e Tari. Incide il costo degli affitti dei locali commerciali,
soltanto adesso i prezzi sono rientrati sotto il livello di guardia (è l’altra
faccia della stangata sul mattone) dopo gli aumenti esponenziali del passato. E
poi c’è il fattore I, come internet. Nella lotta quotidiana per la
sopravvivenza, il web sta portando all’estinzione di alcune «specie», costringe
gioco forza al cambiamento molte altre, e così si modifica il panorama delle
insegne accese.
La possibilità di prenotare con un pc o uno smartphone (a
proposito, i negozi di telefonia, quelli sì, sono in attivo) qualsiasi aspetto
di una vacanza, dal volo al pernottamento fino alle escursioni, ha messo in
ginocchio da tempo le agenzie di viaggio. I cliccatissimi siti di
room&house sharing complicano la vita ad alberghi e pensioni (già 400 in
meno quest’anno), mentre i 26mila bed&breakfast sembrano reggere meglio
all’impatto. Il commercio in Rete continua a crescere e intanto spazza via
librerie indipendenti, negozietti di musica, le piccole sale cinematografiche.
In ogni caso, internet obbliga tutti a reinventarsi.
La
metamorfosi delle città è continua, sotto i nostri occhi di passanti a volte
distratti. Intanto c’è chi dice addio al negozio dentro quattro mura, e
riparte.
In 22mila nuovi commercianti, negli ultimi 5 anni, hanno scommesso
tutto su un’impresa ambulante, italiani ma soprattutto stranieri (il sorpasso è
già avvenuto: sono il 52%). Cento vetrine che chiudono per cento bancarelle che
rispuntano agli angoli dei nostri quartieri.
Tratto da: http://www.crisitaly.org/da-gennaio-chiuse-10-654-attivita-4-ogni-ora-90-al-giorno-2-700-al-mese/
Fonte: http://www.ilgiornale.it/news/che-chiudono-1153418.html
Tratto da: http://www.crisitaly.org/da-gennaio-chiuse-10-654-attivita-4-ogni-ora-90-al-giorno-2-700-al-mese/
Fonte: http://www.ilgiornale.it/news/che-chiudono-1153418.html
Você não disse que não precisávamos mais trabalhar??eu lamento por essas pessoas,não é fácil se adaptar,talvez melhor imigrar,Itália não pertence mais a italianos...
RispondiEliminaVocê não disse que não precisávamos mais trabalhar??eu lamento por essas pessoas,não é fácil se adaptar,talvez melhor imigrar,Itália não pertence mais a italianos...
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