martedì 21 luglio 2015

Ogni ora in Italia chiudono 4 aziende, 2700 al mese...



Ricordatevi del bar dove avete fatto colazione questa mattina, tenete bene a mente il benzinaio dove vi siete fermati prima di partire per il weekend. Perché la prossima volta che ci passerete davanti, chissà, al loro posto troverete una saracinesca abbassata.

Chiusi per ferie? Macché, chiusi per crisi, tasse e pure per colpa di una app . Ecco la sorte che tocca a quattro negozi all’ora, 90 al giorno, 2.700 al mese. Solo da gennaio ad aprile, secondo i dati di Confesercenti, sono sparite 10.654 attività. Un virus che colpisce a ogni latitudine, al nord e al centro (più di seimila) come al sud e nelle isole (le restanti 4.600). Magazzini sbarrati, locali lasciati sfitti, annunci di «cedesi attività» ignorati da mesi. 

Con un’emorragia di posti di lavoro che non accenna a fermarsi, anzi, visto che già alla fine dello scorso anno il saldo tra nuove imprese e quelle «cessate» era stato pesantemente negativo: quasi 25mila in meno.

Cento vetrine che chiudono, addirittura una su due entro tre anni dal brindisi d’inaugurazione. Purtroppo non è fiction, ma la realtà per una larga fetta di Paese che non vede la luce della ripresa perché è ancora intrappolata nel tunnel dei conti che non tornano. E alla fine si è costretti a gettare la spugna. Non è questione di gufi.

Basta chiederlo, per esempio, ai 2.653 tra uomini e donne che portavano avanti un negozio di abbigliamento o di calzature. 
In comune hanno l’epilogo della loro storia imprenditoriale: nei primi quattro mesi del 2015 hanno detto addio al business. Sono evaporate persino le bolle dei compro oro (-13mila aziende in tre anni) e delle sigarette elettroniche (da tremila a poco più di mille in un biennio). Così come hanno abbassato definitivamente la clèr , come dicono a Milano – 402 macellerie, 236 botteghe di ortofrutta, 340 negozi di articoli da regalo e per fumatori, 284 edicole e giornalai; insomma, i nodi di quella rete di prossimità che tiene insieme interi quartieri. 



Il primo danno collaterale i cittadini lo pagano in termini di (in)sicurezza, perché meno negozi aperti significa più insegne spente e marciapiedi deserti, a rischio degrado e preda della criminalità. Non se la passano affatto bene bar, ristoranti e pizzerie. La Federazione italiana dei pubblici esercizi (Fipe) ne ha contati diecimila in meno in un anno, con 8 miliardi di euro di mancata crescita dal 2011 a oggi. Qui il turnover è particolarmente accelerato, c’è un alto tasso di improvvisazione: in molti aprono un locale, magari dopo aver perso il precedente lavoro, ma spesso senza successo. Per gli immigrati, con aspettative di guadagno più basse, il settore è diventato particolarmente appetibile. E così proliferano sushi restaurant, kebab take away, alimentari etnici. Gli imprenditori italiani invece ci provano con gelaterie artigianali e botteghe di prodotti bio, tra le poche che vantano trend positivi. 
Per tutti, però, l’orizzonte di sopravvivenza non supera i 5 anni.

Perché si chiude? Colpa della crisi economica, certo, che ha stravolto le abitudini delle famiglie. 

La spesa per consumi, certifica ancora Confesercenti, lo scorso anno è rimasta pressoché stabile dopo aver perso 60 miliardi di euro nei due anni precedenti. Spinge a mollare tutto la zavorra di burocrazia e tasse, ormai insostenibile se la pressione fiscale è oltre il 50%, per non parlare dei rincari Imu e Tari. Incide il costo degli affitti dei locali commerciali, soltanto adesso i prezzi sono rientrati sotto il livello di guardia (è l’altra faccia della stangata sul mattone) dopo gli aumenti esponenziali del passato. E poi c’è il fattore I, come internet. Nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, il web sta portando all’estinzione di alcune «specie», costringe gioco forza al cambiamento molte altre, e così si modifica il panorama delle insegne accese. 

La possibilità di prenotare con un pc o uno smartphone (a proposito, i negozi di telefonia, quelli sì, sono in attivo) qualsiasi aspetto di una vacanza, dal volo al pernottamento fino alle escursioni, ha messo in ginocchio da tempo le agenzie di viaggio. I cliccatissimi siti di room&house sharing complicano la vita ad alberghi e pensioni (già 400 in meno quest’anno), mentre i 26mila bed&breakfast sembrano reggere meglio all’impatto. Il commercio in Rete continua a crescere e intanto spazza via librerie indipendenti, negozietti di musica, le piccole sale cinematografiche. In ogni caso, internet obbliga tutti a reinventarsi.


La metamorfosi delle città è continua, sotto i nostri occhi di passanti a volte distratti. Intanto c’è chi dice addio al negozio dentro quattro mura, e riparte. 

In 22mila nuovi commercianti, negli ultimi 5 anni, hanno scommesso tutto su un’impresa ambulante, italiani ma soprattutto stranieri (il sorpasso è già avvenuto: sono il 52%). Cento vetrine che chiudono per cento bancarelle che rispuntano agli angoli dei nostri quartieri.

Tratto da: http://www.crisitaly.org/da-gennaio-chiuse-10-654-attivita-4-ogni-ora-90-al-giorno-2-700-al-mese/

Fonte: http://www.ilgiornale.it/news/che-chiudono-1153418.html

2 commenti:

  1. Você não disse que não precisávamos mais trabalhar??eu lamento por essas pessoas,não é fácil se adaptar,talvez melhor imigrar,Itália não pertence mais a italianos...

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  2. Você não disse que não precisávamos mais trabalhar??eu lamento por essas pessoas,não é fácil se adaptar,talvez melhor imigrar,Itália não pertence mais a italianos...

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